Giovedì 7 novembre si è svolta la giornata congressuale Rethinking ADHD, voluta e realizzata da un gruppo di professionisti e professioniste appassionate, in cerca di confronto e di un rinnovato senso profondo del proprio agire.
SITCC e SITCC Piemonte hanno sostenuto questa proposta, mostrando apertura e sensibilità. Grazie. Grazie a IUSTO – Istituto Universitario Torino Rebaudengo per l’ospitalità e gli spazi.
Grazie a tutte le persone che hanno scelto di partecipare.
Abbiamo assistito ad un caleidoscopio di spunti e di sguardi che convergono nell’intenzionalità di comporre un disegno, qualcosa di chiaro e fruibile da chi ha mostrato interesse e ci ascolta.
Rethinking, ovvero ripensare. Fermarsi, fare il punto, proseguire, con piena presenza e consapevolezza.
Dal ripensare l’ADHD togliendo una D, scomponendolo sui manuali e nella #ricerca e mantenendo invece intere le persone, riconoscendolo come costrutto nella cultura di massa con le sue implicazioni, siamo finiti per ripensare il ruolo della psicologia tutta nel panorama contemporaneo (quantomeno nazionale).
Abbiamo aperto riportando al centro l’umano, che non si esaurisce in un cervello e in comportamenti da studiare e classificare, da correggere con farmaci efficaci, i cui effetti collaterali vengono lasciati in un angolo per non disturbare un sistema che ne mette in evidenza solo alcuni aspetti. Abbiamo sfidato i paradigmi.
Siamo risaliti, con guida esperta, alle origini dell’attenzione nella relazione mamma-bambino e al senso del movimento stesso e del gioco, del contatto e del consenso, oltre le polarizzazioni e le influenze a volte poco fruttuose che arrivano, quasi inosservate, da altri contesti culturali in qualche modo dominanti.
Abbiamo esplorato prospettive evoluzionistiche e le loro limitazioni, toccato la parte #genetica cercando punti di contatto che nell’umano esistono naturalmente, ma nella scienza a volte dialogano poco.
Ci siamo interrogati sul senso e sulla funzione della diagnosi e degli interventi stessi, in prima, seconda, terza persona.
Abbiamo proposto di riportare la relazione genitore-bambino al centro del percorso di trattamento nelle condizioni di sviluppo atipiche: il ruolo decisivo dell’intervento sulla genitorialità, non delimitabile da versioni più o meno standard di Training, ma caratterizzato nell’azione di supporto e guida, all’interno di un incrementò di sensibilità e di regolazione dei loro stessi stati emozionali.
Abbiamo ascoltato il racconto delle esperienze sul campo di colleghe e colleghi. Abbiamo ascoltato parole e sensazioni di alcuni genitori. Abbiamo ricordato di avere un corpo.
Si sono fatte affermazioni coraggiose nel tentativo di riportare la psicologia, e gli interventi che ne originano, ad essere una risorsa abilitante per l’umano, che possa intervenire dove serve, e come serve alle persone che si trovano in difficoltà. Partire sempre dall’incontro e dall’ascolto.
Abbiamo messo a fuoco l’importanza di lavorare con gli adulti, aiutandoli a riconoscere le loro fatiche, comprendendole ed accettandole. Una maggiore consapevolezza per accedere alle loro preziose risorse nell’essere un elemento protettivo nel percorso evolutivo delle piccole persone.
Adulti ancora più confusi di fronte alle innumerevoli proposte e pubblicazioni, i cui bisogni vanno intercettati e toccati con delicatezza, fornendo una guida che resti salda nel sapere che non ci sono verità da offrire o promesse da fare. Ci sono relazioni da (ri)costruire, tra adulti con diverse competenze e ruoli da riconoscere e valorizzare. C’è l’El Dorado, il tesoro da ritrovare, del senso di comunità.
Abbiamo considerato che anche i professionisti hanno bisogno di ritrovare un centro, frammentati come sono nel mare magnum della formazione e delle certificazioni. Abbiamo rivolto lo sguardo e la parola anche agli studenti e studentesse presenti, aprendo un dialogo necessario con le nuove generazioni.
Quello che non abbiamo fatto è stato dire delle verità assolute, non è nella nostra natura, né nella nostra intenzione. Quello che non abbiamo fatto è stato proporre approcci da intendere come migliori e risolutivi.
Quello che abbiamo fatto è stato chiedere a tutti e tutte di mettersi scomodi, riconoscere quanto sia difficile lasciare andare le proprie convinzioni e quanto siamo tutti guidati, in un modo o nell’altro, da bisogni personali che non vanno certamente oscurati ed esiliati al di fuori della consapevolezza, giudicati come inadeguati o, peggio, indegni.
Al contrario, quelli che potremmo chiamare i nostri bias vanno avvicinati con delicatezza, conosciuti e riconosciuti nel loro impatto così come si manifesta in ogni molecola del nostro agire.
Nottetempo, abbiamo continuato a dibattere attraverso una mail che diventa terreno di scambio, sapendo che ciò che permetterà a queste riflessioni di essere generative e non allontanare – separando ancora una volta i saperi ed i cuori – sarà ripensare ogni volta dove ci troviamo e perché, riconoscere da dove viene il mio sguardo e la mia parola, riconnetterci all’intenzione, sostenere questo immenso non sapere, con umiltà e professionalità ripartendo, come è stato detto in chiusura, dai legami.