HU-MAN: Sport e mascolinità sana. Il coach Giuseppe Mangone racconta il suo sguardo sulla pallacanestro e le sfide dei giovani atleti

Giocatore o persona? Quanto conta il fisico e quanto il mentale? Uno sguardo da vicino al ruolo dei coach di squadre giovanili nel dare una direzione sana allo sviluppo dell’identità dei giovani atleti, in questo caso nel basket

INTERVISTA A GIUSEPPE MANGONE, PLAYER DEVELOPMENT COACH PER LA PRIMA SQUADRA (SERIE A) E RESPONSABILE TECNICO DEL SETTORE GIOVANILE PER VANOLI BASKET CREMONA

Coach Mangone,
grazie per aver dato la sua disponibilità a questa intervista sul tema della ‘healthy manhood’, ovvero della mascolinità sana.

Nel mese che vede insieme la festa della donna e la festa del papà, sto portando avanti un progetto che dia voce a diverse figure rappresentanti l’ambito psicologico ed educativo, nell’intenzione di raccogliere testimonianze e pareri significativi nella direzione di de-costruire quella che Tony Porter chiama la ‘man box’.

Porter si riferisce ad una socializzazione del maschio ‘non sana’, per promuovere formule educative e modelli sociali preventivi rispetto alla sofferenza che la cosiddetta ‘man box’ o l’idea di dover essere ‘abbastanza uomo’ può causare negli uomini stessi e nelle donne.

Come prima domanda, le vorrei mostrare due interventi sul tema e chiederle un parere:

    Quali elementi dei due interventi TED sono per lei più significativi e adatti ad uno sguardo contemporaneo sull’educazione del maschio?

Rispetto ai video che mi ha proposto di visionare, li ho trovati stimolanti e penso che li condividerò con alcuni colleghi.

La prima cosa che mi sento di dire in questo contesto è che una grande differenza la fa l’approccio dell’allenatore, nel momento in cui reagisce a determinati comportamenti dei ragazzi o nel modo stesso in cui manifesta la propria mascolinità.

Nel corso dell’intervista vorrei riferirmi ad alcune parole chiave trovate nelle TED talk, utili nella mia esperienza di allenatore perché si intersecano con il percorso dei ragazzi all’interno del settore giovanile.

Queste parole sono: avere un ruolo da recitare, che può avere anche qualche connotazione positiva; il fatto di diventare un buon essere umano, piuttosto che agire per sentirsi ‘abbastanza uomo’; avere equilibrio e l’essere percepito/definito come uno che ‘fa la differenza’ (gamechanger) quando in realtà, nel profondo, ci si sente conformisti rispetto alle aspettative sociali verso il maschile.

Ritengo importante a questo punto aprire una parentesi su quello che è un po’ l’idea base della programmazione all’interno di un settore giovanile di pallacanestro. Ci sono tre macro aspetti che vengono approfonditi continuativamente, che consideriamo i tre aspetti fondamentali della crescita di un atleta: l’aspetto mentale-psicologico, l’aspetto tecnico e l’aspetto fisico.

L’aspetto tecnico è qualcosa che viene coltivato giorno per giorno, passo dopo passo, perché con l’aumentare dell’esperienza e della quantità di ore di allenamento, il bagaglio tecnico cresce, ma non lo fa nello stesso modo su tutti, perché il talento gioca un ruolo fondamentale.

Ci saranno giocatori che avranno un certo tipo di propensione a migliorare e miglioreranno più velocemente e risolveranno più problemi, e ci saranno giocatori che avranno un percorso diverso o si fermeranno prima, o avranno un apprendimento più lento o limitato.

L’aspetto fisico è fisiologico, quindi con il passare degli anni ci sarà un carico di lavoro adeguato all’età ed al momento in cui si trova l’atleta, e lo si seguirà nel suo sviluppo; ciò andrà poi ad aiutare l’aspetto tecnico: ad esempio alcuni gesti che prima non potevano essere appresi perché mancano forza o velocità, spostamento laterale, ed altri fattori fisici necessari.

Tutto questo non porta a fare un salto di qualità decisivo, e parlo di performance, se manca l’aspetto mentale. L’aspetto mentale è dunque la prima cosa ed è quella su cui non possiamo mancare nel nostro insegnamento dal primo giorno fino all’ultimo, perché è ciò che poi permette ad un giocatore con un talento fisico medio di eccellere, oppure ad un giocatore con un talento tecnico mediocre, ma con grande mentalità, attitudine, attenzione, di eccellere a livello di performance.

Nella storia dello sport l’aspetto mentale ha sempre permesso ad un giocatore di fare il salto di qualità ed è pieno di giocatori dotati tecnicamente, o molto dotati fisicamente, che hanno fallito ad alto livello perché mancavano in quello che era l’attitudine mentale.

Combinando questi tre aspetti noi cerchiamo di abbracciare la crescita del ragazzo: i ragazzi arrivano con un sogno e quello che non deve mai mancare è l’equilibrio, è il ricordarsi che lo sport ha una valenza a livello di disciplina, a livello di regole che poi diventano la base per avere una vita di successo nello sport e anche al di là di quest’ambito.

Per una vita di successo intendo essere una persona perbene, essere un buon essere umano.

Noi allenatori dobbiamo tenere accesa questa passione, facendo sì che i ragazzi coltivino il loro sogno, ma allo stesso tempo dobbiamo farglielo vivere con equilibrio e dobbiamo far loro conoscere alcuni aspetti che sono decisivi per affrontare questo percorso nella maniera più armonica possibile.

Non tutti i ragazzi vivono l’emozione dello sport con la serenità che dovrebbero avere, la vivono magari attraverso le aspettative della famiglia, di un genitore particolarmente esigente, la vivono attraverso la competizione con un compagno di squadra e quindi a volte i ragazzi non si mostrano esattamente per quello che sono, e faccio qui riferimento al tema di avere un ruolo da recitare.

Qualche ragazzo, o per proteggersi o per una iniziale strategia di pianificazione del proprio percorso, prova ad assumere un ruolo che può essere il ruolo di leader, il ruolo del giocatore che si mostra forte, il ruolo del giocatore ribelle, … ognuno può prendere una direzione differente e noi adulti dobbiamo essere bravi a capire se stanno vivendo in maniera serena quel ruolo, o se lo stanno vivendo in maniera forzata.

A proposito di quando Justin Baldoni viene identificato da una testata come ‘gamechanger’, quando invece sente nel profondo di essere stato riconosciuto dalla popolazione maschile solo per via di un  comportamento ‘conforme’ alle aspettative verso l’uomo, è importante dire che stiamo vivendo un momento storico particolare e anche nello sport ci si cade, cioè quello dell’apparire: voler essere visti come sempre molto belli, molto atletici, voler sembrare agli occhi di tutti per forza bravi, ..

Lo strumento dei social e dei video adesso spopola. Tantissimi ragazzi vogliono ad esempio filmarsi mentre stanno facendo un bel gesto tecnico, mentre stanno facendo un bel canestro, ma non filmeranno mai i 19 errori consecutivi che hanno fatto prima, e questo li porta a voler soddisfare uno status che a 13, 14, 15, 16 anni è impossibile mantenere.

Come pensa sia più utile intervenire culturalmente e socialmente per un cambiamento nella cosiddetta ‘socializzazione dell’uomo’ in favore di minori rischi e maggiori benefici per individui e comunità?

Per quello che riguarda la mia esperienza e la mia competenza, limitata al mondo della pallacanestro giovanile, io credo molto nei valori che può dare lo sport ad alto livello, perché dentro a qualcosa di ambizioso e difficile come può essere il sogno di fare il giocatore c’è tanto lavoro, tanta fatica, tante cadute.

Credo che la persona, il ragazzo che diventa uomo durante il suo percorso, affronti numerose esperienze dalle quali può arricchirsi e che favoriscono, grazie alla guida degli adulti portatori di determinati valori, una socializzazione dell’uomo abbastanza sana.

È chiaro che la cosa non è facile: da una parte abbiamo la disciplina, le regole e soprattutto regole all’interno di una squadra, che condividiamo per un obiettivo comune. All’interno di queste regole comuni per un percorso comune, ci sono ragazzi con personalità diverse e con un livello di ambizione diversa, con una percezione di sé stessi differente, con una bravura o efficacia diversa.

Per questo motivo si aprono una miriade di situazioni quotidiane in cui ogni ragazzo cerca la sua giusta collocazione all’interno del mondo-squadra con in comune una serie di regole che ci permettono di arrivare ad avere l’obiettivo e la sensazione di costruire qualcosa insieme.

Da un lato c’è l’aspetto dello sviluppo e di un percorso equilibrato, del divenire buoni esseri umani, ma allo stesso tempo c’è l’aspetto dell’atletismo: dei salti, delle corse, delle spinte, dei contatti fisici, ovvero ciò che in maniera molto superficiale viene classificato come gesto ‘maschio’.

Una crescita in equilibrio riguarda trovare il giusto mix tra questi due aspetti, tenendo conto che man mano che si sale con gli anni si entra poi in un in un mondo in cui, se siamo stati bravi a lavorare prima sull’essere umano, il giocare con fisicità e durezza non verrà visto come qualcosa di maschile in senso negativo, o violento, ma come un mezzo tecnico necessario per avere la meglio sugli avversari.

A livello sociale, credo sia fondamentale tenere bene a mente che all’interno di un gruppo squadra ci sarà sempre un giocatore ‘più bravo’. Ci saranno sempre un giocatore che giocherà di più ed uno che giocherà di meno, ma questo è il giocatore.

Quello che conta di più è la persona e ogni giocatore è prima di tutto una persona e tutti i giocatori sono allenati, stimolati e spinti allo stesso modo, con la stessa onestà e sincerità che meritano.

Nel momento in cui noi rendiamo il giovane protagonista dell’allenamento come persona, ogni giorno e tutti sullo stesso piano, abbiamo centrato un obiettivo fondamentale, perché poi sarà il ragazzo stesso che – se un genitore dovesse esprimere qualche perplessità – dirà ‘mamma, papà non ti preoccupare io mi sto allenando bene, sto lavorando bene, mi fido di quello che fa il coach, non ti devi preoccupare’.

I ragazzi sono intelligenti e svegli e percepiscono quando un allenatore li sta trattando tutti allo stesso modo come persone, allora accetteranno il proprio ruolo all’interno della squadra come giocatori, ed il fatto che non può essere lo stesso per tutti.

Che cosa rappresenta per un ragazzo la propria squadra, dal punto di vista dello sviluppo della propria identità maschile?

La squadra rappresenta una parte molto presente della quotidianità della vita di un giovane atleta. Parliamo di ragazzi che si allenano anche tutti i giorni, la squadra diventa nel vero senso della parola una seconda famiglia.

Per via dell’impegno che richiede, diventa il posto dove si coltivano amicizie che magari restano per tutta la vita. Con il giusto allenamento, all’interno della propria squadra il ragazzo si prepara ad assorbire gli stimoli che gli arrivano, tutte le correzioni, diventa più pronto a incamerare tutti i feedback che riceverà e a gestirli anche emotivamente.

Dal punto di vista sociale e dello sviluppo della propria identità esiste il contesto del pre- e post- allenamento in cui i ragazzi sono incoraggiati a lavorare in autonomia, sviluppando autodeterminazione e la capacità di sostenere la motivazione.

È un momento in cui i ragazzi non sono gestiti dall’allenatore, ma lavorano in autonomia e quindi parlano tra di loro; si inizia a creare quella che è la leadership e si comincia a vedere chi ama di più condividere, chi magari è più riservato, iniziano a definirsi le varie caratteristiche individuali della persona, dei giocatori, e quindi si possono conoscere e confrontare senza che ci sia l’allenatore.

L’allenatore è presente, ma è defilato a bordo campo e lascia che questo pre-allenamento venga gestito da loro. E’ molto interessante: questo momento viene preparato attraverso specifici messaggi e feedback che vanno nella direzione di promuovere la consapevolezza di sé e la gestione emotiva sana. Qualcosa che osservo è come ci siano giocatori più disponibili a ricevere un aiuto da un altro giocatore più maturo e consapevole, mentre altri hanno reazioni di frustrazione in tale contesto.

Noi allenatori abbiamo l’occasione di favorire una maggiore accettazione dell’aiuto da parte dei pari, andando quindi nella direzione di smontare l’idea per cui chiedere aiuto sia da deboli e si debba sempre ‘farcela da soli’.

In che modo un allenatore è coinvolto nella facilitazione, promozione e costruzione di tale identità? Attraverso quali azioni?

Ai ragazzi, più o meno a tutti, racconto questa storia: quando ero ragazzino tra i 13 ed i 15 anni andavo al campetto dell’oratorio a giocare a basket praticamente tutti i giorni, e c’era questo Prete, Don Stefano, che era abbastanza giovane. Un ragazzo di una di una bontà, di una gentilezza, di un’educazione straordinaria, di carattere timido, garbato nei modi, giocava a calcio e a pallacanestro con noi.

Quando ci trovavamo a giocare al campetto le età erano le più disparate, arrivava anche lui: era un giocatore durissimo, faceva della fisicità, dell’energia, della grinta agonistica i suoi punti forti. Giocava con una durezza e una ‘cattiveria’ che erano completamente opposte a quello che mostrava nel suo essere fuori dal campo; finita la partita, ritornava ad essere la persona che è sempre stata e quindi gentile ed educata, sempre amorevole con tutti.

Lo racconto ai miei ragazzi perché è importante essere se stessi ed essere autentici, non preoccuparsi di nascondere quello che uno si sente di essere, nel loro essere gli uni diversi dagli altri.

Il fatto di giocare duro sul campo non prevede di essere duri fuori dal campo: uno non deve diventare un ‘gangster’ per giocare tosto sul campo da basket, ma deve capire che c’è un momento in cui occorre anche avere nel proprio repertorio la fisicità, il giocare duro e saper sopportare i contatti senza dover diventare una persona diversa.

Questa per me è la chiave per far sì che i ragazzi si sentano a proprio agio e non si sentano mai inadatti, o che magari percepiscano che la richiesta sia rivolta al loro essere persona e non al loro essere giocatore.

Secondo me, assorbita questa informazione – il che è tutt’altro che facile perché non è così facile distinguere le due cose – il percorso diventa più semplice per loro.

Torno a quello che abbiamo detto nella prima domanda: c’è da recitare un ruolo, ma nel senso positivo del termine: quando si gioca bisogna a volte mostrarsi un po’ più duri di quello che uno magari non è fuori dal campo.  Questo perché in quel momento c’è un’esigenza che richiede lo sport ad alto livello, che richiede l’agonismo.

Poi, diventa qualcosa di piacevole da fare, perché è la sfida da raccogliere, la sfida di provare a vincere, quello che è il momento dello stress – che per me è uno stress positivo – ovvero quello della partita, con il susseguirsi di emozioni, con 10 ragazzi sul campo ognuno disposto a dare il massimo per provare a vincere.

Prima e dopo questo momento ognuno deve essere se stesso, vivere le proprie emozioni come sente: c’è chi vive una emozione forte piangendo, chi la vive arrabbiandosi, c’è chi la vive chiudendosi in se stesso, ed io devo mantenere l’espressione emotiva dentro a standard accettabili in un certo contesto, affinché non ci siano reazioni pericolose per il giocatore e per gli altri.

Questo è secondo me è la base di partenza per vivere nel modo più sano possibile un momento fortemente stressante e fortemente emozionale come può essere  una partita.

Emerge, durante il suo lavoro, la ‘man box’ cui fa riferimento Porter?

La ‘man box’ di Porter può emergere ad esempio quando succede che, se qualcuno non gioca duro, venga battezzato Pussy Player, una ‘fighetta’ oppure ‘giochi come una bambina’. Questo tipo di linguaggio è sempre in agguato e ammetto che all’inizio della mia della mia carriera era un errore che facevo anch’io: giocare soft veniva associato al mondo femminile in senso dispregiativo.

Mi rendo conto che parte tutto dalla guida, dall’adulto che osserva e modera, dà significato e crea linguaggi sul campo e fuori. Un coach può associare un modo di giocare soft a qualcosa di diverso da una presunta ‘debolezza’, ad esempio maggiore attenzione, o una forma di impegno; allora, il gioco soft viene associato a concetti totalmente diversi da quelli citati prima ed i giocatori non faranno più questo tipo di riferimento.

Quindi, se nel momento in cui c’è un problema l’allenatore smetterà di dire ‘eh comportati da uomo’, ‘fai l’uomo’, ‘gioca duro, sei un uomo, non sei più un bambino’, quando noi per primi siamo la loro guida e diamo i riferimenti giusti, i giocatori non parleranno mai più di ‘fighetta’ o di ‘donnicciola’.

L’ho vissuto sulla mia pelle e chiaramente mi dispiace perché ho fatto qualcosa che avrei potuto fare meglio. Anche ora sto facendo qualcosa che domani potrò fare meglio, è il percorso di ciascuno. Però mi sono accorto che la ‘man box’ c’è nel momento in cui esiste all’interno della testa dell’allenatore; se l’allenatore va oltre e resta su valori diversi, i giocatori assorbono quello dalla propria guida.

Cosa può notare, a proposito di mascolinità sana o tossica, nelle diverse fasce d’età che allena?

Il settore giovanile comincia con ragazzi di 11, 12 e 13 anni ed è una fascia di età in cui è consentito fare giocare ragazzi e ragazze all’interno della stessa squadra.

Questo può esemplificare bene il discorso del crescere ‘buoni esseri umani’ e non invece ragazzi che si sentano abbastanza ‘maschi’.

Uno spogliatoio diverso e le caratteristiche che una ragazza può avere offrono a noi allenatori un’opportunità di coltivare l’inclusione, proprio sulla base dei valori che abbiamo scelto in partenza di trasmettere alla squadra.

È anche un’occasione per i maschi di familiarizzare con aspetti del femminile che magari non si aspettano, costruendo senso di appartenenza e rispetto reciproco.

Quando cambia la fascia di età e cambia lo sviluppo fisico, quindi aumentano le masse muscolari, la fisicità può diventare un mezzo per emergere all’interno di un allenamento, e i ragazzi che hanno particolare fisicità e particolare efficacia nel manifestarla all’interno di un allenamento o di una partita tendono a sentirsi più forti e quindi possono mandare anche un messaggio proprio con la loro fisicità.

Spesso i giocatori che hanno grande fisicità possono associarvi arroganza o tracotanza; questa forza fisica li fa sentire chiaramente più forti degli altri, e possono abusarne.

Si capisce se noi adulti abbiamo lavorato bene sull’aspetto mentale quando un giocatore di grande fisicità non si accontenta e va oltre, perché sa che un domani tutti i giocatori avranno la propria fisicità, e quindi continuerà a lavorare sui propri aspetti mentali e tecnici senza accontentarsi di quello che gli dà la fisicità.

Se c’è disequilibrio, un giocatore che avrà grande fisicità ma poca preparazione sul piano mentale e psicologico probabilmente resterà un po’ arrogante e un po’ ignorante, sportivamente parlando; un giocatore limitato, perché si fiderà solo di quello che gli sta dando il suo fisico e trascurerà la tecnica, trascurerà la parte mentale perché penserà di poter risolvere tutto con un salto, con una spinta, con una schiacciata.

Chi si è messo nelle mani solamente del proprio talento fisico dovrà, un domani,  verosimilmente fermarsi prima, o rimanere a un livello inferiore.

Crescendo, complice lo sviluppo – spontaneo ed insieme accompagnato – della parte mentale e di una maggiore maturità, è possibile avere un buon giocatore ed una buona persona più libera ad esempio dai limiti imposti da una certa cultura del maschile, dalla ‘man box’.

Che peso hanno l’aspetto di performance e di competitività in questo contesto?

La performance e la competitività giocano un aspetto centrale, decisivo e purtroppo a volte molto negativo nel percorso di un giovane atleta.

Io scinderei la performance dalla competitività: la competitività noi proviamo a chiederla, o meglio, gliela facciamo conoscere, gliela facciamo apprezzare, li facciamo divertire nel competere; poi gliela chiediamo in termini di avere desiderio di diventare migliore di quello che si è ogni giorno, in ogni aspetto dell’allenamento.

Quando si gioca c’è la voglia di competere, c’è una sfida e nella sfida c’è un giocatore che vince e uno che perde.

I ragazzi devono conoscere bene in tutti gli aspetti la vittoria e la sconfitta, devono sapere che la sconfitta fa parte della normalità e che, in una carriera, di sconfitte ce ne sono tante così come possono esserci altrettante tante vittorie.

Devono avere ben chiaro che non è uguale vincere o perdere, e devono imparare ad accettare la sconfitta.

Questo accade però nel momento in cui la conoscono e la vivono.

Devono perseguire la vittoria, e questo può alimentare la loro competitività in maniera naturale, ovvero come qualcosa che hanno dentro: si allacciano le scarpe a inizio allenamento e sono competitivi, sono competitivi con i propri compagni di squadra, sono esigenti con i propri compagni di squadra quando si tratta di lavorare magari in situazioni di uno contro uno, perché devono esigere che ci sia dall’altra parte la stessa voglia di competere.

Qui torna l’aspetto mentale: devono competere con loro stessi ogni volta che lavorano individualmente, ogni volta che lavorano su aspetti del gioco che non conoscono o che non sono ancora riusciti a migliorare, quindi su tutti quelli che sono i loro difetti o aree da sviluppare.

Penso che essere competitivi in maniera sana sia una trave portante dell’agonismo. Per me il messaggio che passa ai ragazzi in merito al competere non è quante partite vinco o quanti scudetti vinco, bensì cercare ogni volta di essere migliori di quello che siamo stati il giorno prima.

La performance è quella che crea maggiore frustrazione, che crea aspettative anche scorrette, che nasce da pressioni dall’esterno come ad esempio da parte delle famiglie degli agenti che iniziano a connettersi con i giocatori.

Ecco, se la competitività va incoraggiata, la performance invece va aspettata.

Mi spiego: caso A, io sono un giocatore fisicamente maturo, precoce, quindi ho già un impatto o un’efficacia sul campo notevole e riesco, attraverso la fisicità di cui parlavamo prima, a mettere sul campo una performance importante. Tocca a me – come abbiamo detto prima – coltivare con equilibrio gli aspetti tecnico e mentale.

In questo modo si potranno portare avanti tutte e tre le assi portanti della programmazione;  ciò porterà ad essere un giocatore completo, che per me non vuol dire di serie A o di serie B; per me è completo vuol dire al 100% del mio potenziale.

Torno alla performance, nel caso B sono un giocatore molto indietro fisicamente e questo è un pregio, perché vuol dire che arriverò dopo, maturerò col tempo sviluppando in parallelo gli altri aspetti. Non sono in grado di fornire una performance efficace immediatamente, ma ci arriverò col tempo.

Il mio aspetto mentale sta andando bene, il mio aspetto tecnico sta andando bene, devo avere la pazienza di aspettare che l’aspetto fisico si sviluppi, e questo è fisiologico.

Non possiamo neanche accelerare troppo i tempi perché poi si va a rischio frattura, a rischio infortunio. Quando l’aspetto fisico si allineerà con quello tecnico e mentale, allora arriverà anche la performance del giocatore, questo viene chiamato il giocatore futuribile.

Il giocatore futuribile deve essere aspettato e non deve essere pressato.

Per quanto riguarda la sua performance, quindi, ci vuole pazienza, ci vogliono gli errori; sono momenti di crescita complicati perché si passa attraverso maggiori difficoltà.

Quando viene fuori questo tipo di situazione, che i ragazzi possono vivere con fatica, soprattutto quando iniziano ad avere 17-18 anni, ci si parla molto tranquillamente e si condivide quello che è la scelta dell’allenatore.

Una volta che viene condiviso con grande onestà, viene accettato dai giocatori. Non sempre invece viene compreso dai genitori.

C’è un momento giusto per ognuno per arrivare alla miglior performance possibile, non è uguale per tutti e bisogna essere bravi a comprendere quanta pazienza ci vuole, quanto tempo bisogna aspettare per ogni giocatore, per farla arrivare al massimo delle proprie potenzialità.

Tutto questo implica accompagnare i ragazzi a saper vivere ed esporre le proprie vulnerabilità, a volte la propria vergogna o senso di inadeguatezza. Accade anche ad altri giocatori in altri momenti: la squadra e gli allenatori abbracciano questi vissuti permettendo al ragazzo di trovare il coraggio e non sentirsi solo.

Quali parole utilizza per motivare, incoraggiare, a volte immagino spingere verso un progresso (sia rispetto al singolo cestista, sia rispetto alle parole che il coach rivolge alla squadra)?

Una parola che mi viene in mente è consapevolezza, unita al miglioramento.

Si parla sempre di voler migliorare e diventare più bravi, ma la cosa veramente difficile è conoscere sé stessi e conoscere i propri limiti, per poter esplorare gli aspetti che hanno a che fare con tutto ciò in cui un giocatore non è bravo.

Si parla anche proprio di essere ‘scarsi’ nel fare qualcosa. Io utilizzo spesso questa parola perché, così come il fallire, il perdere, l’essere ‘scarsi’ sono tutte parole che negli ultimi tempi vengono tenute nascoste ai ragazzi e non vengono contemplate.

Io non mi permetto di fare il genitore, o di giudicare chi fa il genitore, io prendo atto del fatto che la maggior parte dei ragazzi che entra in palestra non ha idea della differenza fra perdere o vincere, nel senso che va sempre tutto bene.

Vanno tutti in difficoltà emotiva quando si parla di ‘non saper fare’ una cosa, vanno tutti in frustrazione quando viene evidenziato qualcosa all’interno del proprio gioco che non funziona, e osservo che si va in blocco.

Allora, per tenere il cerchio virtuoso in movimento, noi allenatori abbiamo bisogno che i giocatori attraversino una fase iniziale anche difficile. Il giocatore deve conoscere sé stesso e deve sapere che la bellezza del suo essere persona e del suo essere giocatore è la propria complessità, fatta di pregi e difetti di carattere, di punti di forza e limiti tecnici, di pregi e difetti fisici, così come mentali.

Nel momento in cui un giocatore approfondisce questa conoscenza di se stesso sa che ha dei limiti, ma anche dei punti di forza cui aggrapparsi nei momenti di difficoltà, perché noi coach dobbiamo essere altrettanto bravi a valorizzare i suoi punti di forza.

Un giocatore deve conoscere i suoi limiti e su quali aspetti deve spingere, dove può spingere, anche e soprattutto in autonomia, senza paura di affrontare ciò che non gli riesce con facilità.

Come coach, ciò in cui sono ‘scarsi’ lo mostro come una sfida, come qualcosa di nuovo da cui imparare; usiamo la parola ‘scarsi’ in maniera seria, in maniera scherzosa, la facciamo diventare una parola normale all’interno del gergo quotidiano che utilizziamo durante gli allenamenti, proprio perché è importante che vivano i propri difetti con grande apertura poiché è normale avere dei limiti, mentre non è sano tenerli nascosti e cercare di apparire perfetti. Diventa un peso insostenibile e pericoloso, soprattutto a un’età in cui uno non ha le spalle per poterlo sostenere.

Lavoriamo affinché vivano la loro complessità con la massima serenità possibile, e si sentano accolti e sostenuti.

Da questo punto di vista, quest’anno sono molto contento perché con alcuni ragazzi siamo andati molto in profondità su questo aspetto. Abbiamo un ragazzo di 15 anni molto bravo al tiro, molto bravo con la palla in mano, ma un giocatore che senza palla in mano era totalmente inattivo.

Tutti amano essere visti al centro dell’azione con la palla in mano, quindi è chiaro che giocare alcuni allenamenti ‘senza palla’ è una cosa che piace pochissimo. Abbiamo costruito un percorso in cui questo ragazzo ha dovuto affrontare un periodo di allenamento ‘senza palla’, tale da completare il proprio profilo.

Se inizialmente è stato difficile per il ragazzo, poiché lo privava di ciò che lo aiutava a mostrarsi forte e capace, anche grazie alla fiducia nei coach ha saputo far tesoro di questa esperienza.

Adesso abbiamo altri giocatori che chiedono di giocare senza palla, anche senza che siamo noi a deciderlo, quindi abbiamo alimentato il nostro circolo virtuoso, ma ci siamo arrivati parlando di ‘scarsezza’. È un percorso non facile, non immediato, e io l’ho scelto perché poi alla fine paga tantissimo, perché un giocatore in questo modo diventa curioso, capace di darsi degli stimoli anche in autonomia, esce dalla comfort zone, va a cercare di capire sempre che cosa sa fare che cosa non sa fare, e come può fare meglio quello che non sa fare, anche chiedendo consiglio ed aiuto (un aspetto poco ‘maschile secondo la socializzazione dell’uomo descritta nei video).

Un altro mezzo di cui mi servo oltre alle parole sono le immagini.

Possono essere quelle di un film, di un’impresa sportiva, di un’impresa umana, possono essere quelle di un’intervista.

Condivido con i ragazzi materiale e punti di vista differenti e cerco sempre di farlo andando a toccare i campi che non sono unicamente quelli della pallacanestro, per far loro capire quanto i valori che stiamo cercando di trasmettere vadano al di là dello specifico sport, ma che è cosa buona per loro portarli in quello che sarà la loro vita, a 360°.

È una cosa importante, così come lo è avere esempi da seguire.

Negli ultimi anni ho utilizzato alcuni film che parlano di amicizia, di dedizione, che parlano di competere, di perseguire un obiettivo a qualsiasi costo, mostrando e ragionando anche sui modi non sani di farlo.

Ha a che fare con il crescere e migliorare come individui, lo ritengo un mezzo altrettanto potente, a volte più delle parole, perché poi alla fine è come ci comportiamo, è come ci muoviamo e come trattiamo i ragazzi che fa la differenza.

L’allenatore di basket ha modo di guidare anche le famiglie verso un approccio alla mascolinità sana, in un contesto che – nell’immaginario collettivo – è vissuto come a volte carico di pressioni esterne, ad esempio da parte di chi avvia i propri figli al professionismo, ma non solo?

In una Società Sportiva strutturata con una catena di comando, con una dirigenza, il contatto con le famiglie da parte dell’allenatore non è quotidiano come potrebbe esserlo in una piccola Società.

Io credo fortemente nell’esempio e credo fortemente nei ragazzi; siccome mi fido molto dei ragazzi e mi fido della loro intelligenza e di una maturità che hanno dentro e che devono solamente scoprire, quello che posso fare come guida è quello di dare il buon esempio.

Se dò il buon esempio ai ragazzi, credo di poter a modo mio – con i miei pregi e i miei difetti – passare il messaggio giusto anche alle famiglie.

Penso che un’area di miglioramento da percorrere e da approfondire per il futuro sarebbe offrire alle famiglie incontri e seminari, serate a tema in cui poter parlare di argomenti molto sensibili che riguardano i loro figli, i ragazzi che praticano sport.

I ragazzi si fidano molto degli allenatori, del proprio allenatore, si fidano di quello che dice, se lo ricordano e lo riportano a casa. Essere un buon esempio, essere coerenti ed autentici con loro è la base di partenza, può arrivare in modo positivo alle famiglie con cui cercare un’alleanza, e lo è per tutto: per lo sviluppo di una mascolinità sana, per i rapporti di amicizia da coltivare, lo è per la maturità e per la disciplina e le regole.

Le pressioni esterne sono chiaramente molto pericolose; non lo sono soltanto per la mascolinità, lo sono per l’intero equilibrio psico-fisico del ragazzo e quindi dobbiamo a volte proteggerli da queste pressioni, a volte condividerle con loro, a volte fargliele conoscere in maniera guidata così che possano viverle nel modo giusto, perché comunque le pressioni esistono nello sport, esistono nella vita, tutti i giorni.

Quello che non deve esistere è che un ragazzo di 13 anni debba sopportare pressioni che farebbe fatica a sostenere uno di 40. Questa è una cosa talmente semplice, che tuttavia a volte viene dimenticata e diventa devastante quando non c’è la giusta percezione delle capacità del proprio figlio, quando un ragazzo ad esempio cova un senso di rivalsa verso qualcosa che non ha avuto e magari nemmeno sa identificare, non si sente apprezzato, e si va così a caricare una struttura leggera che non è ancora pronta ad un carico per lui del tutto inadeguato.

Cosa vorrebbe dire agli uomini ed alle donne, ai padri e alle madri, ai ragazzi che leggeranno la sua intervista, un messaggio diretto a cuore aperto?

Ringrazio tutti perché, se sono arrivati fino qui, vuol dire che non si sono annoiati.

Il messaggio che intendo mandare è rivolto più ai genitori che ai ragazzi.

Sostenete i vostri figli, li stiamo preparando ad un percorso che dovranno affrontare in futuro da soli e quindi, per trovare il giusto equilibrio e la giusta indipendenza, hanno bisogno di vivere le giuste esperienze: quelle vincenti, quelle perdenti, e quindi apprezzate i vostri ragazzi per quello che sanno fare, apprezzateli anche per quello che non sanno ancora fare perché domani – se avremo lavorato bene come adulti – avranno voglia di migliorarsi e il desiderio di crescere in quello che sono.

Per arrivarci, hanno bisogno di cadere e di rialzarsi, e che ci sia qualcuno al loro fianco a sostenerli, non a prenderli in braccio, bensì ad accompagnarli.